Dunque, torniamo al 17 Ottobre 1989.
Alle 10 circa avevamo finito di mettere a posto il casino al Lab. Era arrivato il momento di tornare a casa, ma si presentava il problema: come? Io in genere mi camminavo i 5 blocchi malfamati per arrivare sulla Market street, la strada principale downtown, dove prendevo l'autobus. Se di giorno Market street è brutta di notte è peggio - questo in situazioni normali ma con il blackout e il potenziale disordine da apocalisse che ci poteva essere in città, non ne parlavamo nemmeno di farla a piedi. Eravamo rimasti nell'oasi protetta del Lab tutto il giorno e non avevamo idea cosa ci aspettava là fuori...
I mezzi pubblici ara probabile che non funzionassero visto la mancanza di elettricità e i danni che lo spostamento del suolo poteva aver recato ai binari di tram e treni, quindi chi non aveva la macchina era imperativo che trovasse un passaggio, per lo meno di notte.
Roger che viveva a Richmond in genere attraversava il ponte danneggiato quindi ora doveva senz'altro prendere il Golden Gate per arrivare a Richmond e per arrivare al Golden Gate poteva passare dalle mie parti...the Haight Ashbury.
Caricammo nel pick up anche Chris Langdon che stava nel lower Haight e partimmo. Fuori era buio-buio, non si vedevano i danni recati dalla scossa ma colpiva subito come una martellata la mancanza di semafori, di luce artificiale. Nel nero più totale - chi era a Firenze nel 69 per l'alluvione lo ricorda - i fari delle macchine sembravano torce elettriche che parallelamente bucano la notte con coni di luce non bastanti a farti sentire protetta. Non c'è niente come il buio per scalzare l'illusione che tutto sia sotto controllo, e confermare che siamo in preda agli elementi che ci circondano e che potenzialmente possono danneggiarci.
Guidavano tutti piano usando particolare attenzione agli incroci dove si devono intuire le intenzioni degli altri guidatori in mancanza di segni visibili. Ma la guida diventa più umana e visto che era stranamente caldo quella notte, si aprivano i finestrini e si gesticolava con gusto:
va avanti tu dice il polso; passo io allora, grazie rispondono le dita a forma di OK.La gente era tutta fuori, per strada. I marciapiedi erano pieni di persone sedute o in piedi che parlavano, ridevano, formavano capannelli che venivano illuminati dai fari delle macchine che passavano. Agli angoli crocicchi di gente, che era uscita fuori di casa perché dentro non c'era niente da fare: nè TV, nè radio nè luce per leggere - niente. Erano fuori anche perché si sentiva il bisogno del branco, di stare insieme agli altri dopo una catastrofe, uniti nella comune fragilità umana evidenziata da una terra che ribelle pareva volerci sbalzare di sella.
Lasciammo Chris a casa e arrivammo di fronte a casa e in presenza di uno spettacolo inaspettato. Sulle scale esterne alla luce delle candele erano appollaiati i miei coinquilini che a malapena conoscevo: c'era chi suonava la chitarra, erano state racimolate dai vari appartamenti e condivise fraternamente scatolette e crackers, formaggio e frutta e giravano anche un paio di bottiglie di vino. Ero talmente sorpresa che devo aver a mala pena salutato Roger che doveva affrontare un viaggio avventuroso per arrivare a casa.
Entrai nel mio studio per vedere che danni ci fossero. Avevo temuto per Fish, il pesce rosso che viveva nella palla di vetro, immaginandolo durante tutta la giornata per terra che si dibatteva prima di morire soffocato, oltre ad immaginare che oramai il mio letto doveva essere diventato una spiaggia. Il futon giapponese su cui dormivo aveva come testiera la base del caminetto che sigillato e inutilizzabile da tempo formava una nicchia che usavo da comodino. Sulla cornice del camino direttamente sopra al letto tenevo varie bottigliette di vetro contenenti la mia collezione di sabbia che immaginavo scosse e gravità avessero fatto cadere sul materasso e dappertutto per la stanza. Invece no, stranamente non si era mosso nulla e anche il pesce era vivo e vegeto. Evviva, chissà perchè non era caduto niente? Per evitare danni postumi misi tutto il frangibile sul pavimento e uscì sulle scale per unirmi agli altri. Cantammo, bevemmo e scambiammo aneddoti sull'esperienza appena passata. Ti tanto in tanto arrivava qualcuno a piedi, viandanti occasionali che provenivano da altri quartieri, , fermandosi a bere un goccio e a raccontare di altre realtà cittadine. Apprendemmo così che nella Marina, a nord, sulla baia ci fossero degli incendi, che mi fece temere ad un ricrearsi della situazione del terremoto del 1906 che bruciò gran parte della città.
Ero rassicurata però dall'atmosfera fra la gente che quella notte era molto diversa dal solito. Sembrava fossimo tutti compaesani, tutti amici, pronti a condividere parole e vino con chiunque passasse di lì.
A un certo punto mi alzai per raggiungere il centro della strada e guardarmi attorno. Mi guardai intorno con meraviglia per la bellezza del dopo disastro. La strada che da sotto di me scendeva dolcemente verso la Hayes Valley qualche chilometro ad est, era stranamente deserta di macchine e ben visibile nella luce della luna che era sorta da poco, gialla e enorme. Non faceva freddo per niente, sembrava estate, una delle poche notti calde di SF, dove non è
mai estate. Sopra di me sulla collina he sovrasta il panorama sottostante si intravedevano le masse nere dei due campanili della chiesa cattolica che fanno parte del campus del college. Tutt'attorno a me vedevo la distesa di casette che forma la morfologia della città; scatolette di legno e vernice multicolore, non più alte di tre piani, dall'aspetto funzionale e armonioso, raramente inframmezzate dal gioiello originale Vittoriano, appariscente come una bomboniera da salotto, restaurato e impreziosito da verniciature fantasiose atte a farne risaltare le cornici e modanature di manifattura artigianale. Nel mezzo del creato dell'uomo la natura non è stata obliterata e gli alberi neri del Panhandle si stagliano un blocco a sud da me formando una linea frastagliata che continua per blocchi e blocchi fino ad arrivare all'Oceano Pacifico. Ovunque secolari querce e eucalipto piantati come barriere del vento formano parchi pubblici e giardini privati, oasi di natura che si fondono perfettamente con l'operato civile di questa città.
Ed ecco che dal fondo della strada vedo salire una fila di lucine, un corteo di millepiedi dagli occhi gialli. E' una fila di autobus che torna al deposito. Arrivano silenziosi e vuoti, 1, 2, 3, 4, 5 filobus in fila uno dietro all'altro, in un corteo triste e magico allo stesso tempo, le ombre scure degli autisti solitari che si stagliano contro la luce gialla degli interni che surrealmente si mescola con quella della luna. Passano, rallentando quasi a fermarsi davanti a noi per poi continuare il loro viaggio verso Ovest. E' un'immagine indimenticabile.
Il loro passaggio sottolinea ed evidenzia il buio e il silenzio che pervade tutt'intorno, la mancanza di rumore di macchinari e motori, il loro mormorio incessante venuto così a mancare ci permette si riprendere fiato dopo la paura.
Più tardi decido di seguire a casa due ragazzi che che si erano fermati per un po' a condividere le loro due bottiglie di vino. Dovevo essere un po' brilla di vino e di emozioni per prendere una decisione che già il giorno dopo ho considerato un p0'azzardata, ma sono ok. Rimaniamo a chiacchierare al buio seduti per terra nel loro salotto, hanno una band e faranno una festa prossimamente a cui vengo invitata.
Tornata a casa squilla il telefono sorprendendomi - davo per scontato non funzionasse ancora. E' la mamma è in lacrime perché mi ha pensato morta sotto le macerie della Cypress. Ha guardato sulla mappa della città e ha visto che il Lab è vicino ad una rampa dell'autostrada e nel parossismo delle notizie si era convinta che sono morta anch'io sotto la Cypress. Sono mortificata per non aver chiamato prima ora, ma ero certa di avere tempo, sicura che le notizie ci avrebbero messo un p0' ad arrivare - invece pare che SF fosse stata dichiarata già RASA AL SUOLO dai media Italiani, che al solito esagerano i drammi in modo vergognoso.
Finalmente a qualche ora del mattino vado a letto e prima di addormentarmi mi ricordo una cosa strana. Oggi indossavo la camicia bianca da smoking col davanti pieghettato e la cravatta con disegno di Sotsass e ricordo che ad un certo punto ho aperto una finestra per l'afa dicendo fra me e me:
"mannaggia che caldo, sembra tempo da terremoto". Il mio subconscio sapeva. Avevo letto da bambina che prima che
l'isola Krakatoa esplodesse, nel 1883, per eruzione vulcanica e terremoto, faceva un caldo anormale e forse il mio subconscio aveva associato le due cose e cercava di allertarmi, come i cani che abbaiavano e piangevano in situazioni simili.
L'indomani alla luce del giorno tutto sembrava ancora più strano, irreale, ma in modo psichedelico. Io che da anni avevo portato in borsa la reflex nell'evenienza del caso eccezionale che stavo vivendo oggi, non ho scattato neanche 1 foto. La miseria altrui, le case in ginocchio, le macchine distrutte, i negozi sventrati, le crepe nell'asfalto dove ci si poteva infilare un braccio, i pali della luce, l'infrastruttura elettrica demolita e traballante, tutto sembrava colpito da cubismo acuto, con la sua visione dalle prospettive sbagliate e i punti di vista molteplici e inconsistenti. Era troppo per piantare anche la mia macchina fotografica in faccia alla gente, che i miei occhi e la mia memoria fossero sufficienti.
Si seppe che nella Marina c'erano stati i danni maggiori, che case di 3 piani erano diventate di 1, che i quartieri costruiti su zone di palude riempite di sabbia e terra di riporto avevano avuto la peggio a causa del "liquefarsi" del terreno. Un momento eri su terra ferma e il momento dopo sprofondavi nel niente. A quello si erano aggiunti gli incendi che avevano bruciato tutta la notte. Ma per fortuna erano stati contenuti.
Tornai al Lab, che era il mio unico punto fermo. Ebbi modo di notare che i danni a questa zona industriale e decrepita erano notevoli, la 6a strada è mezza crollata, aumentando il numero di senza casa che già poveri per vivere nei palazzoni piccionaia ora si trovano a vagare per la città in cerca di rifugio.
BART (Bay Area Rapid Transit, il treno che passa sotto la baia) era tornato a funzionare portando dalla East Bay vagoni di gente che preferiva il pericolo del tubo sotto la baia alle miglia per circumnavigare la baia in automobile pr andare a lavorare. E Roger è arrivato in bicicletta (che si può portare sul treno se non si viaggia nelle ore di punta) uffa. Mi dice che il tratto in bici a Richmond non è fra i più sicuri ma che è fattibile - io però stasera come torno a casa?
In qualche modo ce la faccio ma il giorno dopo Roger mi sorprende , è venuto con il pick up - così mi può dare uno strappo. Evviva!
Inizia così il nostro
mènage in emergenza. Io uso i mezzi pubblici di giorno, e lui mi accompagna a casa di notte. Con la scusa che è notte socializziamo fra noi. Lo invito in casa per giocare a backgammon
o a bere la cioccolata calda dopo il lavoro, prima del suo transatlantico ritorno a casa. L
a gola è il suo punto debole: "Mi è arrivato un maxi gianduiotto dall'Italia, ne vuoi un po'?". E così il passaggio a casa diventa una piacevole routine.
Poi arriva il giorno del mio volo a Firenze il viaggio era stato pianificato prima del terremoto . Al decollo, guardando la città che è anche la mia mi sento di tradirla lasciandola in questo momento di bisogno. Il viaggio sarà uno dei più belli che ho mai fatto, pieno di nuovi incontri, momenti speciali, scoperte, conferme . Dopo essere tornata a casa arriva il Natale in cui mi sento benedetta, quando regalo coperte ai barboni che trovo per strada e sono convinta di essere sulla strada giusta. Passo le feste a disegnare e fare polaroid da sola nel mio studio ma felice come non mai. Altri avvenimenti riempiono quei tempi ma la costante è l'amicizia con Roger che cresce e che eventualmente prenderà altri risvolti. Come dicevo se non fosse stato per il terremoto, chissà dove saremmo ora.
Post Scriptum. Circa sei mesi dopo è Aprile, e il 18 Aprile del 1906 si commemora il terremoto che livellò San Francisco. Dopo quello di Ottobre ci sono state altre piccole scosse e queste mi hanno spaventato un po'. Ho sviluppato un sesto senso anch'io, un istinto che nasce dalla paura provata e dalle sensazioni durante le scosse. Riesco a differenziare le sensazioni ora. Le vibrazioni , lo stridio creato dalla frizione di pietra e suolo sotto terra è un suono che sento nelle ossa, nei denti e sotto la pelle ora, mi entra dentro e mi sollevai peli delle braccia. Ricordo l'odore di zolfo come se le interiora della terra si aprissero al cielo, disgustose.
Ora capisco Madeline che ha sentito arrivare il terremoto molto prima di noi, scappando per le scale. Lei era a
Mexico City per il terremoto del 85 e aveva già avuto il suo battesimo di fuoco.
Le coincidenze numeriche in Aprile mi incuriosiscono e noto che il 17 è un altro martedì che segue un Venerdì 13. Mmmm, non mi piace per niente. Non solo ma siamo anche in Aprile e il 18 si commemora quello dell'inizio del secolo. Troppe coincidenze.
Diciamo che avevo la mia molla interna caricata a bestia quella mattina -era il 17 o il 18 - quando alle 6 suona il telefono. Era Pippi dall'Italia, che chiamava non so per cosa -ancora non doveva aver capito come funziona il fuso orario. Finita la telefonata non riesco a riaddormentarmi, il mio cervello comincia a frullare, comincio ad aver paura pensando che oggi è un giorno particolare, che oggi è il giorno che può succedere. ancora.... ed ecco che come chiamato dalla mia paura il pavimento comincia a tremare --è un altro terremoto! Lo so sono strega, che ci posso fare?
Pensavo di morire, il cuore pareva voler uscire dal petto per rifugiarsi altrove dove la materia STA FERMA.
Skip era con me al tempo, vivevamo già insieme. Ci siamo guardati e non so se abbiamo detto qualcosa ma abbiamo raccolto la coperta e siamo usciti di casa e raggiunto il parcheggio della scuola di fronte e in pigiama come due scemi abbiamo aspettato che la terra e i nostri cuori si calmassero.
Un consiglio: mai aspettare un terremoto. Mai.
danni a costruzioni nella zona della Marina, costruito su terreni di riporto