mercoledì 13 marzo 2013

POLITICHE AZIENDALI

www.aziendainfiera.it
è tanto che non scrivo nulla qui sulla Tigre, ma ieri mi è successa una cosa che non posso non segnalare. 

Dunque si parla tanto di immondizia, specie quando si paga tanto la tassa dei rifiuti che ogni anno è esageratamente più cara di quella prima. E' vero che la riduzione dei rifiuti dovrebbe avvenire a monte, dai produttori della merce che compriamo che a volte esagerano all'inscatolamento. Il riso nel sacchetto di plastica sottovuoto e poi nella scatola di cartone? La frutta ha proprio bisogno del vassoio di polistirene e poi del cellophane? (specie le banane che hanno uno dei migliori imballaggi naturali - da uno studio USA fra banana e cofanetto CD vince la banana 10 a 0)
Politiche aziendali, che creano costi che vengono ricaricati due volte al consumatore: prima all'acquisto aggiunti al prezzo della merce, e dopo, nella bolletta della spazzatura sempre in crescita con il diminuire dello spazio dove metterla.

Io porto i sacchetti di carta della volta prima per riutilizzarli per la spesa della volta dopo, e la frutta e la verdura le faccio mettere tutte insieme, che tanto vengono lavate no? Agrumi e banane si sbucciano pure ma certe signore insistono su un sacchetto per tipo di prodotto. Siamo tutti signori specie quelli che, pezzenti una volta, si riconoscono nello spreco. 
I negozianti dicono: "che brava, ricicla" ma non incoraggiano altri a farlo anzi offrono il sacchetto di plastica per il singolo articolo. A volte hanno lo zelo opposto nel timore che il cibo... scappi! La carta oliata, poi la carta assorbente attorno, ben chiusa con lo scotch poi nel sacchetto di carta per "alimentari" e infine in quello di plastica.

Fanatica che sono gioisco e incoraggio calorosamente le iniziative che promuovono la riduzione dello spreco e il riciclo. Quando ad Arezzo i cassonetti del riciclo c'erano solo all'Ipercoop, caricavo tutta la mia monnezza di carta e plastica sul motorino e -come uno dei raccatta ciarpame a Mumbai-instabilmente mi recavo fuori città per buttarla. Ho abbracciato le compostiere per il riciclo dell'umido che facevo da tempo e benedetto i contenitori per le pile usate e le farmacie che raccolgono i medicinali usati. 

Davanti al cassonetto mi domando se ogni cellophane, rete di plastica per le patate e fagiolini, vassoietto di polistirene che inserisco sarà poi effettivamente "riciclato" oppure se il mio zelo a includere tutto ciò che è plastica laddove il cartello segnala solo le bottiglie di plastica dia luogo a contaminazione del riciclo. Mi chiedo anche se il personale del centro smaltimento bestemmi riconoscendo la mia roba, se per loro sono una maledizione o se invece mi ammirino per la creatività e l'iniziativa che dimostro nel mio "rifiutare"...
O peggio ancora, se noi diversifichiamo la raccolta e poi loro non buttino tutt' insieme per poi bruciarla, alla faccia nostra.

Ma torniamo a ieri. Tempo fa alla Coop offrivano dei bei bottiglioni di plastica verde e tappo giallo, per il riciclaggio degli olii da cucina usati che altrimenti vengono buttati negli scarichi. Grande idea, mi procuro il bottiglione ma prima di arrivare a riempirlo (friggo quasi niente) il bidone dove buttarli sparisce. Quindi ieri, vado alle Tombe, il centro raccolta rifiuti, dove sicuramente potrò liberarmi del mio olio.

Il cancello normalmente aperto è chiuso e sul campanello c'è un cartello con su scritto "FUNZIONA". Suono. Nel casottino vedo il portinaio al telefono, aspetto che apra, risuono, poi a piedi vado a segnalargli dalla finestra che mi apra. Entro e parcheggio di fronte al vetro perché non so dov'è il contenitore dell'olio. Quando di tanto in tanto alza gli occhi gesticolo con bidone verde nella speranza mi indichi in che direzione andare. Finalmente finisce la chiamata.

E' inutile che mi gesticoli posso fare solo una cosa per volta (mai sentito di multi tasking? bastava un dito puntato) 
Dove vado per gettare l'olio?  
Deve spostare la macchina meglio sulla bilancia che la devo pesare. 
Ho solo l'olio da buttare.
Ma la devo pesare comunque. 
Come mi deve pesare? per due litri d'olio? 
Si, e devo anche riempire il cartellino. Per ogni persona che entra devo riempire il cartellino, anche se i due litri di olio nel conteniotre sono troppo poco per venire registrati dalla bilancia ...
Cioè non si vede il peso dell'olio che vengo a riciclare? Ma allora a che serve...?
E così, mi dica il nome, il cognome, l'indirizzo di residenza e il codice fiscale. 

Uno si domanda perché questa burocrazia per riciclare 2 litri di olio. Politica aziendale di sicuro. Dovranno provare di avere delle quote di affluenza per ottenere dei sussidi. I barili di raccolta dell'olio dovrebbero trovarsi insieme ai cassonetti nei paesi, invece di essere al centro rifiuti su una strada senza uscita dove si deve andare apposta. 

E non ditemi che è perché siamo in Italia, che qui fa tutto schifo, non lo voglio sentire, non lo accetto. 

Una volta quando io raccontavo che in California i supermarket come Wholefoods -che so esserci anche in Italia ora- stavano tornando allo sfuso, mi veniva detto: nooo è poco igenico, e la roba è poco fresca. 
Mi veniva detto la stessa cosa quando dicevo che quando fare le svendite, come gli orari di apertura, lo dovevano decidere i negozianti non lo stato, e ci siamo arrivati con le leggi recenti. 

Che ora abbiamo i cassonetti del riciclo persino nei piccoli paesi è un buon segno, una volta non c'erano neanche in città quindi confido che si tratti solo di aver pazienza e di stirare le pieguzze che ancora rimangono tra le vesti dei burocrati.

Bisogna tenersi positivi di questi tempi.


giovedì 3 gennaio 2013

YOU ARE WHAT YOU FEAR

 
image  found on web in 2007 and unfortunately can't credit author for it


la prima paura che ricordo fu il suggerimento del dentista che suggerì ai miei parenti che più avanti nel tempo avrei potuto fare "un'operazioncina" per rimuovere il diastema fra i due incisivi ed avere un sorriso Colgate. Per anni questa spada di Damocle mi ha dato ansia ogni volta che ci pensavo, fino a che sono cresciuta abbastanza da scoprire che potevo decidere di non farla. Stessa cosa per le tonsille, che i medici continuavano a suggerire venissero rimosse per evitare le ricorrenti infezioni, ai tempi in cui si levava ogni cosa che non fosse vitale.

Ma a 26 anni non mi pare di aver avuto grandi timori (li ho efficacemente rimossi o mascherati in problematiche affettive) prima di trasferirmi a San Francisco con solo biglietto di andata, iniziando un esistenza sul filo e senza "rete" (non ci andai per lavoro o per studio, ma per cambiare il vicolo cieco di una vita borghese che trovavo insopportabile) laddove scopersi di poter diventare e fare chi e ciò che volessi.

Nè mi ha dato problemi, disoccupata e in Italia 13 anni dopo, partire per l'Asia con un preavviso di 8 ore, sostituendo un'amica che aveva scoperto di aver perso il passaporto il giorno prima del volo. Il dover lavorare in un settore in cui non avevo la minima esperienza, l'essere in posti e con persone che non conoscevo erano cose che non mi davano nessun problema, anzi.

Ricordavo stamani invece di aver temuto di dover guidare una macchina con il cambio al volante. Al tempo le macchine dei miei amici erano in maggior parte Francesi e quindi avevano quel cambio che era un ostacolo per me insuperabile. Purtroppo non ce ce sono più tante di macchine con quel cambio e questa rimane una sfida da battere.

Non ricordo ansia particolare quando, lavorando il turno di notte a SF, dovevo attraversare a piedi una zona malfamata frequentata da drogati e spacciatori per arrivare alla fermata dell'autobus. Aspettavo il bus sul marciapiede di mezzeria, ben illuminata dai fari delle macchine che passavano tutto intorno e dalle luci intermittenti delle insegne che pubblicizzavano ragazze nude e alcool a buon mercato, come un dolce nella bacheca che rotea sul bancone di pasticceria. 
E quando una notte ho sentito che qualcuno mi stava seguendo mentre attraversavo il parco, non sono stata presa da panico irrazionale, non mi ha sopraffatto l'istinto di fuga, ma soppesando il da fare ho preferito voltarmi per far fronte al pericolo, perchè a mio avviso è ben peggiore ciò che si inventa la mente di quello che ci si può trovare ad affrontare nella realtà. 

Non ho temuto il volontariato con i malati di AIDS che a SF erano principalmente gay, salvo per la possibilità di sembrare ingenua nei riguardi del loro mondo. Nè di dare rifugio e conforto a un ragazzino appena conosciuto in treno che era scappato di casa quel giorno. Ho temuto andare nel deserto da sola, ben conscia che è un ambiente a me alieno, ma l'ho fatto lo stesso. Non ho avuto paura durante il grosso terremoto di SF nel '89 ma me la sono fatta sotto le scosse che ho percepito da allora, sia in California che tornata in Italia. Non temevo il crimine di Oakland lasciando le due porte che davano sul giardino sempre aperte, nonostante che tutte le finestre avessero sbarre e non ci fossero barriere dalla strada al giardino. Da che sono piccola temo gli incendi sulle colline, quei punti rossi che si vedevano di notte dal Conventino delle Suore dove passavo parte dell'estate, che ci raggiungessero mentre dormivamo. Non ho temuto la solitudine e il buio totale nella scala a chiocciola di una torre medioevale, anzi ne ho goduto come esperienza di come possa essere l'assenza di materia. Ho temuto lo squallore di una vita mal vissuta; di farmi vincere dalla banalità; di diventare morta dentro come tanti; del cinismo e della rinuncia a fare ciò che ci ispira. Ho ancora paura di aver paura di vivere.

I timori che ho oggi sono principalmente connessi con dottori e ospedali; sono la possibilità di perdita di controllo del mio corpo e della sua privacy. Le farfalle nello stomaco compaiono se devo andare a fare la pulizia dei denti, o una visita medica "invadente". Non temo la morte ma temo il lungo protrarsi della malattia e il dolore, la menomazione, la perdita delle qualità essenziali della mia vita, o di quella che considero la mia essenza. Questo nonostante sappia, intimamente -e che continui a sforzarmi di ben accogliere spiritualmente dovesse accadermi il peggio- che sono quelle sfide le più grosse occasioni di crescita e di profondo cambiamento che la vita può offrire. 

Non so perchè si ha paura di una cosa e non di un'altra. Cosa detti queste paure. La paura è un'istinto di sopravvivenza, necessario e primordiale, e non sono sicura se istintivamente, come per tante cose, preferisca metterla nel dimenticatoio insieme a quelle cose che non servono alla sopravvivenza di ogni giorno come la nostalgia dei propri cari quando hai scelto di lasciarli o la paura della morte e di invecchiare quando sai che non le si possono evitare.

Mi domando se nel vivere razionalmente e fatalisticamente si è vivi davvero.