venerdì 30 luglio 2010

MAL DI TERRA

Copyright Niki Ghini all rights reserved


nè di mal d'auto, bus o di mal di mare, ma di mal di terra sì che soffro.

E chi lo sapeva, non mi era mai capitato in questo modo. Seppure fossi stata altre volte in barca, dormendoci come stavolta, persino scendendo meno a terra di come ho fatto. Le due ore di passeggiata fatte sulla spiaggia avrebbero dovuto stabilizzare la coclea, quell'ossicino dell'orecchio a forma di  guscio di lumaca che è responsabile del nostro equilibrio.  Invece no.

Sarà stata colpa di tutte le schifezze per l'allergia, che sto prendendo o che il mio corpo sta cambiando per l'età. Fatto sta che Lunedì mi girava la testa come una trottola e avevo anche un bel po' di nausea. Bell'affare. 
Ma partiamo dall'inizi: lo scorso weekend sono andata a Lido di Camaiore con un'amica che voleva vedere un concerto - a me non interessava per cui lasciata lei in prima fila sono andata  subito ad infilare i piedi nell'acqua, calda come un brodetto di pesce. Ma era acqua di mare e seppure di Versilia, neanche noi snob del mare ci si sputa sopra. Su e giù sulla battigia a vedere i kite surfers che appesi al filo si facevano trascinare sulle ondine Mediterranee... buffo dopo aver visto i surfers in Hawaii e in California cavalcare onde enormi... ma uno fa con quello che ha, no? 

Poi un po' zingara con i piedi sabbiosi e i pantaloni bagnati (of course) a passeggio sul lungo mare fra baracchini che vendevano chincaglierie varie per quelli che, in vacanza, hanno soldi che bruciano nelle tasche:  caldi caldi che prima li spendi tutti meglio stai. Un gran via vai di gente ancor prima di cena, che si è andato via via infittendo con l'arrivo del buio. Accertatami che l'amica non avesse bisogno di nulla, e avendo deciso che di cenare da sola ai prezzi da vacanza non se ne parlava nemmeno, mi sono comprata una birra carissima e trovato da sedere sullo scalino di una scultura che era nel bel mezzo della passeggiata. Ho tirato fuori la macchina fotografica, mi sono messa in cuffietta i Wilco e sono entrata nel groove della serata. 
La gente arrivava come le onde, a gruppi fitti che si diradavano  ritmicamente per poi infittirsi  di nuovo.  Ho iniziato a scattare con la macchina fra le ginocchia, senza guardare lo schermo salvo per accertarmi di tanto in tanto che fosse posizionato bene. Vedevo quelli che arrivavano e quando erano in un certo punto scattavo, decapitando volutamente le teste e inquadrando invece le panze, gli shorts, le gambette nude, i piedi, i cani e i passeggino con i bambini. Presto ho cominciato a percepire un ritmo, un rituale, una danza tribale o processione in omaggio agli dei delle ferie. E guardando lo scattato mi accorgevo che questo passatempo stava diventando fonte di immagini speciali, che avevo trovato una vena aurifera incredibile. I bambini in carrozzella erano gli unici complici, e se non proprio complici, le vittime partecipi e curiose che guardavano in camera, che mi squadravano un po' inquisitivi, un po' come per sfidarmi. Gli adulti, invece presi dal guardarsi e confrontarsi, dal parlare e gesticolare, dal volere e desiderare, passavano senza degnarmi di uno sguardo salvo la rara eccezione che mi guardava un po' dubbiosa, un po' chiedendosi : ma questa quà che fa, fotografa me? E perchè? 
Ero inesistente, invisibile, ero la statua dietro di me, bronzo o ferro distorto che si innalzava come la prua di una nave dietro la mia schiena, che fendeva le acque umane che arrivavano incessanti. Devo aver fotografato per un'ora, forse più, oltre 200 immagini. Pensavo che la bellezza che avevo visto  nel controllare le immagini scattate fosse solo l'effetto del'euforia da birra e musica,  da Sabato sera lal mare, da sola, libera, senza dovere niente a nessuno. Ma il giorno dopo, e quello dopo ancora le visioni a mente lucida hanno confermato la prima impressione. Io che non amo la gente, che non la fotografo, avevo trovato un modo di farlo. E avevo un progetto in mano, uno da poter presentare magari a Portfolio Italia 2010 di Settembre al Centro di Fotografia, chissà.

E poi quando era ormai ovvio che avevo esaurito la vena, in spiaggia a fotografare la luna, e poi a regalare un palloncino ad un bimbo che stava per fare le bizze, mettendo i poveri genitori in una situazione che non avevo previsto (uffa, ogni azione anche quella più disinteressata ha le sue inavvertite conseguenze) e alla fine del concerto un'altra birra stavolta in compagnia, due chiacchiere prima di rimettersi in macchina per arrivare alla barca alle 3 del mattino, dove saliti a bordo fare uno snack con schiacciata, salamino e formaggio e  poi via in cuccetta ad abituarsi al rollare incessante, al cigolio dalla gomena d'ancora e allo sciaguattio del mare. Laddove non ho dormito profondamente ma ad ogni risveglio realizzando dov'ero, ero felice.  

mercoledì 21 luglio 2010

IL BUDDHINO - OVVERO - UNA STORIA D'AMORE



 

questo è Hotai, l'immagine del Buddha Cinese che adoro. E' un tipo, lui: è un' elfo, una satirello, un saggio e un buffone, l'immagine impersonificata della gioia e del menimpippismo del mondo. La cosa buffa e sorpendente per me è che ogni volta che lo guardo ha un'espressione diversa, un essenza nuova da quella precedente.


oggi per esempio, l'ho preso per fargli nuove foto, perchè quelle che avevo mi convincevano poco. L'ho guardato in faccia e pareva guardarmi negli occhi con quel suo bagliore di malizia come per dirmi: -sapessi le cose che ho visto.... e nonostante tutto, che ridere!- mi sono sentita di condividere questa irrefrenabile allegria con lui, e gli ho detto: -Hotai come sei polveroso, vieni che ti spolvero - e visto che c'ero gli ho dato un bel bacio sulla crapa pelata perchè lo sento la personificazione di uno spirito che è vivo e quindi non mi sento scema a parlargli o baciarlo, come farei normalmente (mica sono così sonata, voglio dire!).
E guardalo lì... mi fa sentire meglio sapere che esiste. Specie mentre sto leggendo la storia del Buddha storico, Siddhartha Gautama  o anche Shakyamuni nel libro di Pankaj Mishra AN END TO SUFFERING - The Buddha in the World, che mi dice cose che un momento mi esaltano e un'altro mi deprimono , cangevoli  come è la natura delle emozioni dell'uomo, a conferma proprio dell'andamento fluttuante delle emozioni e dei pensieri che ci condannano all'infelicità.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio rimanere con Hotai e il pensiero di come è entrato nella mia vita. E' stato amore a prima vista. Davvero. Eravamo responsabili della casa dei miei suoceri via per il weekend quando ci fu l'incendio di Oakland, nel 1991, e quando vedemmo la nuvola di fumo che si alzava nella direzione della loro casa corremmo a salvare il loro cane e le cose di valore. La corsia autostradale che portava sul luogo era chiusa al traffico mentre sull'altra c'era un esodo di macchine e camioncini carichi di gente e roba, ma conoscendo le vie laterali riuscimmo adentrare nei boschi della zona. Sembrava di essere sul set di Apocalypse Now con il fumo nero che copriva il sole rendendolo grande come una pallina da golf rossa e gli elicotteri che volavano bassi ingiungendoci con il megafono di abbandonare le case. Una volta dentro dovevamo decidere cosa prendere, tenedo d'occhio la cortina di fumo per poter scappare se il fuoco si avvicinava. C'erano molti oggetti orientali nella casa inclusa la collezione di Netsuke giapponesi che provvedemmo subito a mettere in macchina insieme al cane ed altra roba.  E lì guardandomi intorno freneticamente per valutare cosa prendere, ecco che ho visto Hotai che mi guardava, sereno e felice nonostante le circostanze, la cui presenza vibrante mi ha detto, semplicemente: PRENDIMI. E io mi sono avvicinata e l'ho guardato in faccia e ho saputo che non avrei potuto assolutamente lasciarlo - e mi sono innamorata perdutamente di lui. 

Ma al tempo non lo sapevo questo, capivo soltanto che non potevo lasciarlo.  Come anni dopo non potei lasciare la foto del monaco Tibetano Tenzin, i cui studi finii per sponsorizzare. (ma questa è un'altra storia.) E' dopo, quando ho dovuto renderlo ai proprietari, quando ogni volta che lo vedevo mi si alleggeriva il cuore, quando andavo a cercarlo per carezzargli il pancino bisbigliandogli paroline dolci, è allora che si è consolidato il mio amore. Quando cambiarono casa non lo vidi per un po', ma quando morì mio suocero,  la vedova mi regalò Hotai, che non amava e aveva relegato in garage (hoy! Ecco dov'era!)  ricordandosi che mi piaceva, e mi diede l'unica eredità a cui tenevo veramente.  Oh, come mi fece felice! Ricordo come avvolsi il suo contorno tondo e il suo piedistallo teneramente nei miei vestiti, per metterlo in valigia a portarlo a casa in Italia, con il timore assurdo che mi fermassero alla dogana e mi vietassero di portarlo via. Non ho mai fatto stimare il pezzo -per me ha valore la sua vitalità, la sua presenza- ma essendo senz'a dubbio un pezzo non comune -si vede dai dettagli che oggi giorno trovi solo in pezzi di antiquariato- non avendolo mai fatto valutare non so il valore che abbia realmente. Ma non è certo quello che da significato alla scultura.  

A volte mi domando chi l'avesse prima, che storia abbia. Immagino di aver dato ospitalità ad un genio di qualche casa, così come mia madre ha dato ospitalità al genio della famiglia Levi, personificatosi nel parafuoco di vetro colorato con l'insigna del nome e una brocca che versa dell'acqua, che abbiamo da sempre in casa, oggetto che lei trovò da qualche parte e che le fece provare il bisogno di proteggerlo per qualcuno che aveva dovuto abbandonarlo. Anni fa non so come ritrovò i discendenti di questi Levi a cui offrì di restituire il pezzo che sorprendentemente non erano interessati a riprendersi. 
Allo stesso modo io immagino la famiglia Cinese di Hotai: di un certo rango per possedere un tale oggetto, per ragioni politiche probabilmente dovette scappare dalla Cina rifugiandosi in America. Magari dovettero lavorare come coolies nella costruzione di strade e ferrovie del continente Americano ,oppure come cuochi o lavandai per i villaggi che nascevano come funghi intorno alla minere d'oro della Sierra Californiana, fino ad arrivare a San Francisco, dove andarono a vivere nelle avenues, vicino all'oceano, da dove guardare verso la Cina natale dall'altro lato del Pacifico. 
E proprio nelle avenues, sul bordo del Presidio e fra le comunità Cinese e Russa, stava il padre di mio suocero, che era medico e deve aver curato molti Cinesi e Giapponesi, persone che magari furoeno costrette a pagarlo con i pochi  oggetti di valore rimasti, mementi tramandati da generazioni e trasportati in un bandolo di seta per nasconderlo agli occhi di quelli che potevano approfittarsi del loro isolamento sociale.  E quindi i netsuke di avorio, di infinite forme e misure; i dipinti su pergamena da muro, con i finiali in legno e i pesi di ceramica per tenerli distesi;  la cassapanca di legno intagliata e laccata rossa che fu poi verniciata di bianco e finì per sparire, (dove sarà finita? a chi l'avrà venduta la vedova che non ama le cineserie?) i vasi, tappeti e chissà cos'altro che sono passati di mano e di cultura. E la storia continua...


Dovrò trovare un degno erede per Hotai, qualcuno che ne sappia apprezzare lo spirito. L'ho appena guardato qui accanto a me e mi è partito un sorriso di quelli che ti fanno muovere gli orecchi, un sorriso pieno e grato che parte dal cuore.

giovedì 15 luglio 2010

COME ESSERE NOSTALGICI SENZA ESSERE PATETICI - LEZIONE # 1


Lo Zenzero ha colpito di nuovo. E' in pratica l'unico attorno a me che sistematicamente scrive cose disarmanti, che ti lasciano a nudo. Mi piace un casino come riesce ad arrivare al sodo delle cose, specie quelle infantili. L'ultimo post è magnifico, ti fa tornare all'età di ragazzino, oppure ti sempra di vedere un film che rappresenta quel periodo.

A me ha ricordato due cose.

1) Che quando ero alle medie mi imposi sui ragazzi per giocare a palla a volo. Non so perchè ma i ragazzi sembravano fare sempre cose più interessanti. A scuola mentre noi cucivamo stupide presine di feltro loro con una pila e del filo di rame costruivano dei congegni che permettevano di tagliare la plastica dei pennarelli come se fosse burro - ganzissimo!

Essendo l'unica femmina che provava ad inserirsi fra loro non fu facile,  e presi una caterva di nocchini. Quando si passava la palla in cerchio se la tiravo male e cadeva a terra erano nocchini, riservati solo a me perchè quando la facevano cadere loro bastava un'imprecazione tipo "Cece, sei un bischero!". Era per scoraggiarmi, mandarmi via, era ovvio. A volte le ragazze chiedevano di giocare con loro e allora si faceva che chi la faceva cadere veniva eliminato e i ragazzi schiacciavano la palla addosso alle ragazze per eliminarle subito. Io in qualche modo restavo in gioco più a lungo, a volte più di molti dei ragazzi. Poi quando facevamo delle partite dietro la rete di filo di ferro, pigliavo i nocchini ugualmente, però facevo parte di un team e me li davano per incentivarmi ad impegnarmi di più. Non ero molto alta e poco atletica ma mi davo da fare. Ad un certo punto qualcosa è cambiato. I nocchini li prendevo sempre, tanto che l'abbassarsi per evitare le braccia dei compagni quando la traiettoria della palla era ovviamente sbagliata, era diventato un tic automatico, ma mi accorsi che i compagni provavano un qualcosa simile al rispetto. Ero stata accettata come un ibrida parte del gruppo.  Ricordo che questo mi rese molto orgogliosa, avevo vinto un gran battaglia. Questo però mi rese una snob nei confronti delle ragazze.
Primo passo sulla strada del mio diventare quella che sono diventata.

2) Quando ci trasferimmo in Piazza dei Mozzi, ero oramai in terza media, e ancora ero socialmente un paria, vedevo dalla finestra della camera dei miei il giardinetto sul lungarno di sotto, accanto alla chiesa Anglicana. Ogni tanto ci si trovavano dei ragazzi che venivano da via dei Neri o Via S. Niccolò per tirare 4 calci ad un pallone nella striscia asfaltata parallela tra il muretto del giardino Torrigiani e la siepe di bosso che delimitava il perimetro del giardinetto. Li convinsi a farmi fare il portiere e visto che nessuno lo voleva fare mi accettarono in quel ruolo. Sull'asfalto non si aspettavano certo che mi buttassi a corpo morto per fermare il pallone ma qualcuna la fermavo. Erano gli ultimi momenti prima della trasformazione da crisalide a farfalla e quindi durò poco. I ragazzi sparirono deviati da studi e attività lavorative familiari. Io cominciai a leggere seduta sulla spalletta dell'Arno nella speranza che qualche ragazzo si fermasse per fare amicizia.

Non sono certa di essere riuscita a non essere patetica, se guardo indietro mi sembra che tutta la mia infanzia lo fosse, per quella solitudine del non appartenere a nessun gruppo, di essere un'outsider, e l'antipatica sensazione di essersi imposti con quelli che non mi volevano. Ho vinto le mie battaglie ma sono diventata un soldato, e l'andare in guerra non era mai stato il mio sogno. La discriminazione sessuale, la lotta per venire accettata come individuo a prescindere dalle pulsioni dell'altro sesso è stata e ancora è fonte di frustrazione immensa, ed è anche quello che mi sembra identifichi più di ogni altra cosa come individuo. Non ero nata maschio purtroppo, ho cercato di esserlo in tutti i modi, poi ho capito che non lo sarei mai stata ma che non avevo le stesse opportunità. E quindi ho fatto il possibile per non assoggettarmi alla ristrettezza di opzioni che mi si presentavano. Tutto qui.

giovedì 8 luglio 2010

DANSONS SOUS LA PLUIE

sono bellissimi, c'è un che di lirico nei loro movimenti, nella loro giovinezza e nel fatto che ballano come possono, dove possono, quando possono, e  si divertono con quello che hanno.



p.s.anche per il blog prima, andatelo a vedere sul sito altrimenti nella mail i video non compaiono....

BLU

blu come il nome dello Street Artist che mi piace tanto,


(ultimo video BIG BANG BIG BOOM)
 
blue come le mie lenti a contatto una volta che entrano nella bottiglietta




















blu come le 1000 bolle blu della canzone,

blu come il link dell'ultimo post di Zenzero,

blu come il lividi che uno si trova inaspettatamente sulle gambe

blu come le uova dei bluebirds